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“Ascarelli. Una storia italiana”, Pirozzi racconta la famiglia di imprenditori che trasformò l’immagine di Napoli

L'epopea (caduta nell'oblio) di due generazioni di imprenditori ebrei arrivati sotto il Vesuvio dopo l'Unità d'Italia. A loro si deve anche la fondazione dell’A. C. Napoli e l’edificazione del primo stadio

Il monumento funebre di Pacifico Ascarelli, edificato nel vecchio cimitero ebraico di via Aquileia a Napoli
Il monumento funebre di Pacifico Ascarelli, edificato nel vecchio cimitero ebraico di via Aquileia a Napoli
08 maggio 2024 | 15.16
LETTURA: 3 minuti

Arriva in libreria e negli store online l’ultimo saggio di Nico Pirozzi: “Ascarelli. Una storia italiana” (Edizioni dell’Ippogrifo, pp. 224, € 20). Un volume che raccoglie la straordinaria e per molti versi inedita epopea di due generazioni di imprenditori che trasformarono l’immagine di Napoli.

Con cinquant’anni d’anticipo su Adriano Olivetti, rivoluzionò il rapporto allora esistente tra profitto d’impresa e capitale umano. Artefice di questo cambiamento che, sotto molteplici aspetti diede inizio a un radicale rinnovamento del mondo del lavoro, fu Pacifico Ascarelli, un imprenditore romano giunto a Napoli allo scopo di ampliare l’attività della Ditta Pellegrino B. Ascarelli, storicamente specializzata nella vendita di lane e tessuti di pregio. Ebreo, massone e garibaldino, Pacifico era, infatti, erede di un’attività commerciale che da secoli si tramandava di padre in figlio. Nella città del Vesuvio era giunto assieme ai fratelli Moisé Gabriele, Isacco e Settimio, negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia.

A trasformare una modesta filiale dell’azienda romana in una corazzata che dava lavoro a centinaia di persone non ci volle molto tempo. Difatti, a inizio Novecento la Ditta Ascarelli, era già considerata una delle maggiori realtà imprenditoriali del vecchio continente, con un fatturato di 20 milioni di lire. Motore di un progetto che sin da subito si dimostrò vincente, fu quel modo totalmente nuovo e per certi versi rivoluzionario che, negli stessi anni in cui negli Stati Uniti andava affermandosi il “fordismo”, andava a rimodulare l’organizzazione del lavoro, dando forma e sostanza a quel concetto di “felicità collettiva” successivamente adottato all’interno della fabbrica eporediese di macchine per scrivere fondata da Camillo Olivetti. Loro, gli Ascarelli, lo fecero garantendo ai loro numerosi dipendenti una serie di diritti fino ad allora più teorici che pratici (assenze per malattia o maternità, ferie, festività nazionali e religiose, tredicesima mensilità, e altri benefit).

Tutto questo, senza aprire altri capitoli in cui il cognome Ascarelli si andò via via coniugando con tantissimi altri vocaboli: sport, cultura, religione, politica, arte, genialità e, soprattutto, mecenatismo. A conferma di ciò non vi è solo la fondazione del primo club calcistico azzurro (l’A. C. Napoli) e l’edificazione del primo stadio, ad opera di Giorgio; le numerose opere a favore dell’infanzia diseredata (l’Asilo e il padiglione per apprendisti tessitori di Marechiaro), che Giorgio e il cugino Dario (consigliere comunale e provinciale socialista), finanziarono con estrema generosità. Questo senza dimenticare l’aiuto offerto in prima persona da Pacifico alle vittime della mortale epidemia di colera che flagellò Napoli nel 1884, compensato da una medaglia d’argento conferitagli dall’allora ministro dell’Interno, Agostino Depretis.

Comprendere i motivi per i quali nel breve volgere di pochi decenni l’oblio ha avvolto e travolto la storia di questa famiglia di imprenditori e di mecenati ebrei, la cui visione del mondo e delle cose superava di gran lunga i confini del tempo nel quale sono vissuti, è solo una delle tante domande a cui l’autore del volume “Ascarelli. Una storia italiana” tenta di dare risposta.

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